. La responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.
L’art. 2087 c.c. è una norma di chiusura del sistema di protezione del lavoratore, in quanto obbliga il datore, non solo ad adottare le misure specificamente richieste dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche, ma più in generale ad attuare tutte le misure di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità, l’integrità psico-fisica e la personalità morale del dipendente.
Secondo un costante orientamento della Suprema Corte, invero, la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare la salute e la sicurezza del lavoratore “discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori” (Cass. civ., sez. lav., 21-04-2017, n. 10145; conforme: Trib. Modena, sez. lav., sent. 29-11-2019).
Tuttavia, è importante precisare che secondo la giurisprudenza di legittimità: “L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento …” (Cass. civ., sez. lav., 08-10-2018, n. 24742).
Per ritenersi configurata una responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c., perciò, è indispensabile che il datore di lavoro abbia agito con colpa, ossia con difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni ai propri dipendenti (cfr. Cass. civ., sez. lav., 26-07-2019, n. 20364; sul punto si veda: Cassazione: quando si integra la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.).
Non solo, la responsabilità datoriale per violazione degli obblighi in materia di sicurezza risulta configurabile esclusivamente nel caso in cui il comportamento dell’imprenditore costituisca inadempimento di una regola di condotta preesistente al fatto lesivo.
A tal fine, è necessario, pertanto, che il datore di lavoro violi una misura di sicurezza espressamente prevista dalla legge o, comunque, individuata e/o individuabile prima dell’evento dannoso.
Infatti, secondo la Cassazione: “L’art. 2087 c.c., nella misura in cui costruisce quale oggetto dell’obbligazione datoriale un facere consistente nell’adozione delle «misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro», permette di imputare al datore di lavoro non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell’evento concreto che in fatto si è cagionato, cioè quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire quel particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso)” (Cass. civ., sez. lav., 15-06-2016, n. 12347).
1.1. L’onere della prova nella violazione dell’art. 2087 c.c.
Fermo restando l’inquadramento della natura della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., giova rilevare che il lavoratore, che assuma di aver contratto una malattia o subito un infortunio per lo svolgimento della prestazione lavorativa, può agire nei confronti del datore, laddove ritenga che il danno eventualmente patito sia conseguenza di una violazione degli obblighi di sicurezza da parte dell’imprenditore.
Trattandosi di responsabilità contrattuale, il riparto dell’onere probatorio è regolato dall’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni.
Ne consegue che, nella relativa domanda, il dipendente deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, la sussistenza del danno ed il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione.Il datore di lavoro deve, invece, provare la dipendenza del danno da una causa a lui non imputabile: ha l’onere, cioè, di dimostrare di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 c.c. e, quindi, di aver apprestato tutte le misure per evitare il danno medesimo.
Sul punto è granitica la posizione della giurisprudenza secondo cui: “L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subìto, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno” (ex ultimis: Trib. Roma, sez. lav., sent. 09-01-2020; conforme tra le molte: Cass. civ., sez. lav., 18-06-2014, n. 13860 e Cons Stato, sez. VI, 12-03-2015, n. 1282).
2. I rischi provenienti dall’esterno
Come abbiamo visto, dunque, l’imprenditore deve adottare tutte le misure necessarie al fine di evitare di sottoporre a rischi i propri dipendenti.
Rischi non solo insiti nella tipologia di prestazione e propri della stessa, ma anche derivanti dall’esterno che possano inserirsi all’interno dell’ambiente lavorativo.
Ciò trova fondamento nella previsione di cui all’art. 28 del D.Lgs. 81/2008 (c.d. TU sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), il quale prevede che il datore debba valutare “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”.
Tesi questa che trova l’avallo anche della giurisprudenza di legittimità, secondo cui: “I doveri di valutazione del rischio … sorgono dal generale obbligo del datore di lavoro di valutare tutti i rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali sono chiamati ad operare i dipendenti, ovunque essi siano situati” (Cass. pen., sez. IV, 05-10-2017, n. 45808).
Questi orientamenti sono suscettibili di essere utilizzati per sostenere che l’imprenditore ha l’onere di valutare il rischio derivante dal COVID-19, anche laddove lo stesso non possa dirsi insito nel tipo di attività posta in essere dall’azienda.
In particolare, secondo alcuni, il rischio di contagio da Coronavirus si allocherebbe all’interno della categoria dei rischi di natura biologica, cui nel D.Lgs. 81/2008 è dedicato il decimo Titolo.
Invero, questo Titolo è pensato per regolare quelle attività lavorative che abbiano direttamente ad oggetto gli agenti biologici (come, ad esempio, i laboratori o le strutture sanitarie), ma è ipotizzabile che esso risulti applicabile anche nel caso in cui il rischio biologico sia solo generico, quindi non costituisca parte del processo produttivo ma sia comunque presente negli ambienti in cui i lavoratori si trovino ad operare.
Pertanto, anche nell’ipotesi in cui il rischio sia esogeno all’organizzazione produttiva in cui è inserito il dipendente e l’attività lavorativa non sia che una mera occasione non qualificata per la verificazione dell’evento di danno cui quel rischio è sotteso, sembra necessario che il datore debba porre in essere la relativa valutazione.
2.1. L’aggiornamento del DVR
Lo strumento, mediante cui l’imprenditore deve procedere alla valutazione dei rischi inerenti alla prestazione è il c.d. DVR, acronimo appunto di Documento Valutazione Rischi.
Lo stesso, oltre ad individuare i possibili rischi presenti in un luogo di lavoro, è finalizzato ad analizzare, valutare e cercare di prevenire le situazioni di pericolo per i prestatori.
In assenza di un’espressa previsione legislativa in merito, si è accesa una diatriba in ordine alla necessità di aggiornamento del DVR con il rischio da COVID-19 per quelle aziende che non abbiano quale oggetto diretto dell’attività lavorativa il rischio biologico, ma presentino solo il rischio di un’esposizione indiretta.
Sul punto si ritiene eloquente la posizione assunta nel corso degli anni dalla giurisprudenza.
Secondo i Giudici di legittimità: “Il DVR è uno strumento duttile, suscettibile di essere in ogni momento aggiornato per essere costantemente al passo con le esigenze di prevenzione che si ricavano dalla pratica giornaliera dell’attività lavorativa” (Cass. pen., sez. IV, 30-08-2018, n. 39283).
Conseguentemente “Le misure atte a prevenire il rischio vanno progressivamente adattate in ragione del mutamento delle complessive condizioni di svolgimento delle singole mansioni, secondo un concetto ‘dinamico’ del rischio, che impone l’adeguamento degli strumenti di protezione e l’aggiornamento della formazione ed informazione del lavoratore, ogni qual volta intervenga un rischio nuovo rispetto a quello originariamente previsto” (Cass. pen., sez. IV, 31-01-2017, n. 4706).
In altre parole, per la Cassazione è sempre necessario, da un lato, valutare i nuovi ed eventualmente maggiori rischi e, dall’altro, considerare l’utilizzo di dispositivi di protezione con caratteristiche diverse, idonee a fronteggiare il mutamento e l’aumento di difficoltà delle condizioni di lavoro.
Senza dimenticare che il datore di lavoro, oltre a dover tenere in considerazione i pericoli c.d. “notori”, “ha l’obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro, e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi” (Cass. pen., sez. IV, 08-02-2018, n. 6121; sul punto si veda: Cassazione: obbligo del datore di informare i dipendenti su tutti i rischi presenti nel luogo di lavoro).
Pertanto, secondo la Suprema Corte “Integra la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di elaborare un documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro non soltanto l’omessa redazione del documento iniziale, ma anche il suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento od adeguamento” (Cass. pen., sez. IV, 31-07-2019, n. 34893).
Ragionando diversamente, infatti, la redazione del DVR finirebbe per assumere un significato solo formale.
Illuminante, ai fini della nostra trattazione, risulta essere la pronuncia di legittimità con cui il rappresentante legale di un’impresa agricola è stato condannato per il reato di cui all’art. 28, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, “perché consentiva, tollerava e comunque non provvedeva a valutare tutti rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori impiegati nell’attività”, ed “in particolare, il documento di valutazione dei rischi non era redatto con criteri di semplicità e comprensibilità tali da garantirne completezza ed idoneità”. Nello specifico, il DVR “non analizzava i rischi legati alla possibile presenza di agenti patogeni veicolati dagli animali, nonostante vi fossero lavoratori addetti alla mungitura ed allevamento esposti a tali rischi biologici (derivanti dal contatto con gli animali)” ed era stato, perciò, ritenuto incompleto, “in quanto non contenente la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori emergenti dagli accertamenti svolti, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari” (Cass. pen., sez. III, 27-07-2017, n. 37412).
Orbene, la granitica posizione assunta dalla giurisprudenza ci insegna che “Il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, all’interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori” (Cass. pen., sez. IV, 20-03-2020, n. 6567).
Fatte tali premesse, non è possibile dare una risposta certa circa l’aggiornamento del DVR, ad ogni modo un aiuto in tal senso perviene dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
In particolare, nella Nota n. 89/2020, l’INL sostiene che l’azienda deve formalizzare l’attenzione posta al rischio da Coronavirus, attraverso la creazione di un’appendice al DVR, ove deve attestare l’adozione di un piano di misure di carattere tecnico, organizzativo e procedurale finalizzate alla riduzione del rischio di contagio da COVID-19 (sul punto si veda: INL – Nota n. 89/2020: Covid-19 – Necessaria un’appendice per il DVR).
3. Le misure che il datore di lavoro è tenuto ad adottare
Secondo quanto previsto dall’art. 28 del D.Lgs. 81/2008, il DVR, oltre all’analisi dei rischi, deve contenere anche l’individuazione delle misure di prevenzione e protezione contro detto rischio.
Misure che possono essere di due tipi: tipizzate (o nominate) – quando sono previste da specifiche disposizioni – ovvero atipiche (o innominate), nel caso in cui siano desumibili dall’obbligo generale di cui all’art. 2087 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 29-03-2019, n. 8911; sul punto si veda: Cassazione: rifiuto del lavoratore a svolgere la prestazione per violazione degli obblighi di sicurezza).
Il datore è tenuto, quindi, ad adottare anche quelle misure che, seppur non specificatamente normate, si rivelino indispensabili per fa fronte ad eventuali rischi presenti nel luogo di lavoro.
Secondo la pacifica posizione assunta dalla giurisprudenza, infatti: “In tema di misure di prevenzione di infortuni sul lavoro, in virtù del generale dovere di sicurezza scaturente dall’art. 2087 c.c., è addebitabile al datore di lavoro la responsabilità per il danno occorso al lavoratore a causa della mancata adozione di misure di prevenzione c.d. “innominate”, intendendosi per tali quelle che, ancorché non espressamente imposte dalla legge o da altra fonte equiparata, siano suggerite da conoscenze sperimentali o tecniche ovvero dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati” (Trib. Bergamo, sez. lav., sent. 05-02-2020).
Ed ancora: “In tema di tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, la mancata adozione di adeguati mezzi di tutela dell’integrità psico-fisica del dipendente comporta la responsabilità del datore di lavoro, anche nel caso in cui l’omissione riguardi le c.d. «misure innominate», ossia quelle che, pur non espressamente imposte dalla legge, siano comunque richieste dall’esistenza di condizioni di lavoro obiettivamente – ancorché solo potenzialmente – pericolose” (Cass. civ., sez. lav., 18-11-2019, n. 29879).
L’imprenditore – al fine di arginare il rischio di contagio da Coronavirus – ha, dunque, l’onere di porre in essere anche le misure c.d. atipiche, derivanti, come visto, dall’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.
Misure che il datore, ai sensi delle previsioni di cui al D.Lgs. 81/2008, deve individuare secondo il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile.
In particolare, secondo quanto previsto dalla giurisprudenza: “Il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. L’art. 2087 c.c., infatti, nell’affermare che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche” (Cass. civ., sez. lav., 03-02-2016, n. 4501).
Ancor più recentemente, i Giudici di legittimità hanno affermato, poi, che: “Qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile” (Cass. civ., sez. lav., 02-03-2020, n. 8160).
Sul punto, appare dirimente l’affermazione contenuta nella Nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 89/2020, secondo cui: “In ragione di quanto esposto e del pilastro normativo come norma di chiusura del sistema prevenzionistico di cui all’art. 2087 c.c. è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008.
Ovviamente, data la natura squisitamente medico-sanitaria, le misure attuate e da attuarsi devono essere calate nella struttura con il supporto del Medico competente oltre che con la consulenza del RSPP e con la consultazione del RLS”.
Ne consegue che il datore è tenuto ad adottare tutte le misure che, ad oggi, si rendano necessarie per tutelare i propri dipendenti dal rischio di contagio.
Perché se è vero che l’imprenditore non deve creare un ambiente lavorativo a rischio zero (cfr. Cass. pen., sez. III, 06-11-2018, n. 50000; sul punto si veda: Cassazione: la culpa in vigilando del datore in materia di sicurezza sul lavoro), altrettanto vero è che ove il rischio è esistente – ed attualmente il COVID-19 lo è – deve impegnarsi per eliminarlo o quantomeno per ridurlo (cfr. Cass. pen., sez. IV, 12-07-2019, n. 30633).
4. Prospettive future
Nell’attuale situazione di emergenza epidemiologica è evidente che la salute e la sicurezza dei lavoratori assumano un’importanza ancor più preminente del solito.
Non vi è dubbio che le norme via via emanate nel corso degli anni in materia sicurezza sul lavoro, da ultimo il D.Lgs. 81/2008, unitamente alla nutrita e maturata giurisprudenza di merito e di legittimità, con riferimento a quelli che sono gli obblighi gravanti sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., abbiano segnato un perimetro concreto e sufficientemente chiaro entro il quale l’imprenditore deve muoversi ed adoperarsi al fine di garantire la miglior tutela della salute dei propri dipendenti.
Tuttavia, l’emergenza provocata dal COVID-19 ha sollevato delle nuove problematiche anche in materia di sicurezza sul lavoro, alla luce del rischio biologico cui i prestatori possano essere esposti durante lo svolgimento della propria attività lavorativa.
Questione, quindi, questa che rende necessario dare una risposta concreta alla domanda che, tanto il datore quanto il dipendente, si pongono rispetto a come porre in essere la prevista tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, in ordine ad un agente patogeno che ad oggi non è ancora identificato nella sua natura.
Quanto riassunto nelle pagine che precedono, ad avviso degli scriventi, evidenzia l’esigenza di ciascun datore di lavoro (tenuto conto delle singole realtà produttive e delle peculiarità dell’ambito aziendale) di combinare il proprio diritto costituzionale all’esercizio dell’attività imprenditoriale, con quello, altrettanto costituzionalmente garantito, alla salute dei suoi dipendenti.
Invero, le indicazioni già fornite dal legislatore, nonché il coacervo dei recenti provvedimenti resi in via d’urgenza alla luce dell’espandersi in maniera aggressiva e difficilmente controllabile del virus sul territorio nazionale, forniscono comunque delle linee guida rispetto a tutta quella serie di comportamenti che debbono essere posti in atto dal datore affinché il dipendente possa riprendere in sicurezza a lavorare.
Ciò in ossequio al principio recentemente affermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui l’attività d’impresa si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana; altrimenti la stessa deve considerarsi lesiva dei diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.) (cfr. Corte Cost., 28-03-2018, n. 58; sul punto si veda: Corte Costituzionale: la tutela della sicurezza dei lavoratori deve avere la prevalenza sull’interesse datoriale alla prosecuzione dell’attività d’impresa).
La partenza è, ovviamente, collegata al tipo di rischio da valutare che, nel caso di specie, è un rischio biologico, il quale – per quanto drammatico nella sua virulenza e nella sua portata – non può far dimenticare che altri rischi, fonti di altrettante situazioni di pericolo (ad esempio: radiazioni, inalazioni di sostanze velenose, ecc.), hanno comunque trovato delle misure di sicurezza idonee a scongiurarne o a ridurne, il più possibile, la intrinseca nocività.
E’ evidente che per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo, ma nell’attesa che la scienza medica ci offra le risposte che tutti (lavoratori e normali cittadini) si aspettano, sembra ragionevole ritenere che anche il rischio connesso al COVID-19 possa trovare delle misure di prevenzione nei luoghi di lavoro.
Misure ovviamente rispetto alle quali il datore dovrà fare uno sforzo notevole di adeguamento rispetto alla propria organizzazione, adottando misure di contenimento e dispositivi di protezione individuale che riducano al minimo il rischio per il dipendente di contrarre la malattia in occasione dell’attività lavorativa.
Decisioni, quindi, che dovranno essere concertate non solo sulla base di norme già esistenti, ma anche attraverso intese tra organizzazioni datoriali e sindacali, mediante:
– le valutazioni e gli studi dei soggetti deputati a garantire la sicurezza sul lavoro (RSPP) in sinergia con gli organi di sorveglianza sanitaria interna (medico competente);
– il continuo aggiornamento dell’obbligatorio DVR (anche mediante l’appendice prospettata dall’INL), alla luce delle nuove situazioni lavorative venutesi a creare in ragione di un rischio che l’INAIL stesso ha definito connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa, tanto da riconoscerne la relativa tutela assistenziale;
– una capillare opera di informazione dei lavoratori sui rischi connessi al COVID-19;
– la sorveglianza rispetto alla effettiva attuazione ed adozione delle misure di sicurezza più idonee alla salvaguardia della salute.
La realtà mondiale in cui ci stiamo muovendo ci evidenzia, sicuramente, una situazione di estrema pericolosità ed incertezza, rispetto alla quale ad oggi non è possibile fornire una interpretazione in assoluto certa.
Cosa succederà, quindi, laddove un dipendente di un’impresa venga contagiato dal c.d. Coronavirus in occasione del lavoro?
Quale sarà l’orientamento giurisprudenziale che si formerà in eventuali cause incardinate dai lavoratori contagiati dal COVID-19 per ottenere un risarcimento del danno per violazione dell’art. 2087 c.c.?
Anche le sentenze si possono prevenire con una responsabile attenzione ai problemi della sicurezza, così contribuendo ad un clima di reciproca fiducia tra le parti, necessario per dare un nuovo slancio alle imprese e per far ripartire l’economia del Paese.
Avv. Matteo Farnetani & Avv. Cristiana Pilo – Fieldfisher
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