La mancata fornitura della documentazione all’Ispettorato del Lavoro

Circolare n. 11/2017 del 17/05/2017 Oggetto: Decreto interministeriale 11 aprile 2011. Indicazioni per il rinnovo quinquennale dell’iscrizione nell’elenco dei soggetti abilitati all’effettuazione delle verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro, di cui all’Allegato VII del decreto legislativo n. 81/2008.
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La mancata fornitura della documentazione all’Ispettorato del Lavoro

L’oggetto di questa sentenza della Corte di Cassazione è il reato di cui all’art. 4 comma 7 della legge 22/7/1961 n. 628 riguardante la mancata o carente fornitura di notizie all’Ispettorato del Lavoro o la fornitura scientemente errata delle stesse benché legalmente richieste. Tale reato, ha precisato la suprema Corte, si configura in presenza di vari elementi il primo dei quali è che sia stata fatta una specifica richiesta di informazioni da parte dell’organo di vigilanza, il secondo è che la richiesta stessa sia stata fatta legalmente ed infine che da parte del soggetto al quale la richiesta è stata rivolta non vi sia una risposta o lo stessa sia priva degli elementi e dei dati richiesti o scientemente errati  Nessuno di questi elementi è emerso nel caso in esame sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione a seguito del ricorso presentato dal titolare di una società, per cui la stessa Corte ha confermata la condanna inflitta al ricorrente dal Tribunale per aver violato il citato articolo della legge n. 628/1961.

 

Il caso e il ricorso in Cassazione

Il Tribunale ha condannato l’amministratore unico di una società alla pena di 500,00 euro di ammenda in quanto riconosciuto colpevole della contravvenzione di cui al comma 7 dell’art. 4 della legge 22/7/1961 n. 628, per avere omesso di fornire al Servizio Ispezione del lavoro della Direzione provinciale del lavoro  la documentazione richiesta con un verbale di accesso ispettivo e con una nota raccomandata, documentazione consistente nella copia dei libretti di circolazione degli automezzi in uso, nell’elenco degli autisti in forza con le generalità complete e nelle registrazioni digitali o stampe dei tachigrafi degli automezzi, relativi a un determinato periodo.

 

In occasione di un controllo da parte del personale dell’Ispettorato del Lavoro, infatti, l’imputato non era stato in grado di esibire la documentazione che gli era stata richiesta in quanto, a suo dire, la medesima gli era stata sequestrata dalla Guardia di Finanza. Successivamente, nonostante i ripetuti solleciti da parte dell’Ufficio richiedente, egli non aveva provveduto ad esibire la documentazione richiesta per cui tale condotta omissiva era stata ritenuta integrare l’art. 4, comma 7 della legge n. 628/1961 sussistente, secondo il giudice del Tribunale, anche nel caso di mancata esibizione di documenti richiesti dall’Ispettorato del lavoro nell’esercizio dei compiti di vigilanza ad esso demandati dalla legge.

Avverso la sentenza del Tribunale l’imputato, a mezzo del proprio difensore di fiducia, ha proposto appello che è stato convertito in ricorso per cassazione alla stregua dei principi generali in materia di impugnazione enunciati dall’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.. Nel ricorso l’imputato ha rilevato preliminarmente di non avere mai ricevuto la notifica del verbale contenente la richiesta dell’Ispettorato del Lavoro per cui, secondo lo stesso, sarebbe mancato l’elemento soggettivo del reato contestato. Infatti, dopo avere rappresentato agli ispettori, in occasione del loro accesso in azienda, di non essere nella disponibilità della documentazione del lavoro richiestagli perché in precedenza acquisita dalla Guardia di Finanza, lo stesso Ispettorato avrebbe provveduto, dapprima ad inviargli la diffida all’indirizzo della sede operativa e non presso la sede legale, diffida rimasta giacente nell’Ufficio postale, e, quindi, a trasmettergli il verbale di prescrizioni all’indirizzo dell’abitazione privata senza che il relativo plico, anche in questo caso rimasto in giacenza presso le Poste, recasse l’indicazione di un qualunque collegamento del suo nominativo con la società che amministrava.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha pertanto rigettato. La stessa preliminarmente ha ricordato che il reato di cui all’art. 4, comma 7 della legge n. 628 del 1961, consiste nel fatto che colui il quale, legalmente richiesto dall’Ispettorato del Lavoro, di fornire notizie sulle materie indicate nel medesimo articolo, non le fornisca o le dia scientemente errate od incomplete. Il reato di cui al comma 7 dell’art. 4 della legge n. 628/1961, ha sostenuto la Sez. III, si compone comunque di tre elementi strutturali essenziali il primo dei quali è che vi sia stata una richiesta di informazioni, da parte del soggetto competente, nelle materie specificamente previste dall’art. 4 della legge n. 628/1961.

 

Sul punto la Corte di Cassazione ha ricordato che in giurisprudenza si ritiene che l’Ispettorato del Lavoro, nell’esercizio del potere di informazione strumentale all’accertamento dell’osservanza delle norme in materia di igiene e di sicurezza sui luoghi di lavoro, possa stabilire il contenuto, il tempo ed il luogo dell’adempimento dell’obbligo avente per oggetto le informazioni richieste e che queste ultime possono consistere in semplici notizie, ma anche nell’esibizione di documentazione necessaria per la vigilanza sull’osservanza delle disposizioni in materia di lavoro, previdenza sociale e contratti collettivi di categoria. Peraltro, ha proseguito la Sez. III, “la richiesta deve avere ad oggetto informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell’Ispettorato”, sicché non costituisce reato la condotta omissiva del datore di lavoro al quale sia stata richiesta solo genericamente la trasmissione della documentazione di lavoro.

 

Come secondo elemento perché si configuri il reato “è necessario che la richiesta sia stata legalmente data” e sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è assestata nel ritenere innanzitutto che il destinatario della richiesta da parte dell’Ispettorato sia il legale rappresentante della ditta, anche quando essa non sia stata rivolta al datore di lavoro personalmente, in quanto è sufficiente che la richiesta venga notificata alla sede dell’azienda perché sia comunque conoscibile dal legale rappresentante di essa. La richiesta, inoltre deve considerarsi “legalmente” data anche se effettuata a mezzo lettera raccomandata, in quanto si tratta di un mezzo legale di interpello che offre garanzia di accertamento sulla data di spedizione e di ricevimento, sicché il reato è pienamente configurabile, non essendone necessaria la notifica nelle forme previste dagli artt. 157 e ss. cod. proc. pen..

 

Come terzo elemento, ha precisato la suprema Corte, ai fini dell’integrazione del reato in questione “è necessario che vi sia una mancata risposta alla richiesta oppure che la risposta fornita contenga dati non rilevanti e/o non pertinenti rispetto a quelli richiesti”. La stessa Corte ha inoltre ricordato che la fattispecie in esame configura, nella sua forma omissiva, un reato permanente, la cui consumazione si protrae fino all’osservanza della disposizione ovvero fino alla data della relativa denuncia penale in danno del responsabile o, secondo altro indirizzo, con il decreto penale di condanna o con la sentenza di primo grado. Pertanto, allorché sia previsto un termine per l’adempimento, il reato si perfeziona alla scadenza di detto termine e si protrae per tutto il tempo in cui il destinatario omette volontariamente di adempiere..

 

A tal punto la Corte di Cassazione ha ritenuto di richiamare le disposizioni fissate in merito dal D. Lgs. n. 758. Secondo quanto stabilito dall’art. 20 di tale decreto legislativo, infatti ricordato, nel caso in cui l’organo di vigilanza abbia accertato la commissione di un reato in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, esso impartisce al contravventore, allo scopo di eliminare la contravvenzione, un’apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario (comma 1), prescrizione con la quale l’organo può imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro (comma 3).

 

Secondo inoltre quanto stabilito dall’art. 21 dello stesso D. Lgs. sulla verifica dell’adempimento, entro e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo di vigilanza verifica se la violazione è stata eliminata secondo le modalità e nel termine indicati dalla prescrizione (comma 1) e, quando risulta l’adempimento alla prescrizione, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione accertata. Entro centoventi giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, inoltre, l’organo di vigilanza comunica al Pubblico Ministero l’adempimento alla prescrizione, nonché l’eventuale pagamento della predetta somma (comma 2). Quando, invece, risulta l’inadempimento alla prescrizione, l’organo di vigilanza ne dà comunicazione al Pubblico Ministero e al contravventore entro novanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione (comma 3).

 

Ai sensi poi del successivo art. 23, rubricato “sospensione del procedimento penale”, il procedimento penale per la contravvenzione è sospeso dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., fino al momento in cui il Pubblico Ministero riceve una delle comunicazioni di cui all’art. 21, commi 2 e 3. A mente dell’art. 24, infine, rubricato “estinzione del reato”, se il contravventore adempie alla prescrizione impartita dall’organo di vigilanza nel termine ivi fissato e provvede al pagamento previsto dall’art. 21 comma 2, la contravvenzione si estingue e il Pubblico Ministero richiede l’archiviazione della notitia criminis.

 

Tanto premesso, la Corte di Cassazione ha ritenuta infondata la tesi difensiva secondo cui non avendo il ricorrente mai ricevuto la notifica del verbale contenente la richiesta dell’Ispettorato del Lavoro, mancherebbe l’elemento soggettivo del reato contestato. Altrettanto infondate sono state giudicate le lamentele relative alla mancata conoscenza del contenuto del verbale di prescrizioni, che, in ipotesi, avrebbe potuto impedire il verificarsi della ricordata condizione di procedibilità dell’azione penale. Sul punto, infatti, la Corte suprema ha fatto rilevare che l’imputato era pienamente a conoscenza del contenuto delle legittime richieste rivolte dall’autorità amministrativa (concernenti non il rilascio di informazioni, ma l’esibizione di documenti) e del termine entro il quale avrebbe dovuto provvedere a rispondere, essendo presente al momento dell’accesso ispettivo e avendo ricevuto copia del relativo verbale, che, peraltro, gli operanti avevano provveduto a rileggergli su sua espressa richiesta. La stessa Corte sull’argomento ha ribadito che la procedura di estinzione delle contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro non richiede una formale notificazione del verbale di ammissione al pagamento redatto dalla pubblica amministrazione successivamente alla verifica della avvenuta eliminazione della violazione, essendo sufficiente una modalità idonea a raggiungere il risultato di notiziare il contravventore della ammissione al pagamento e del relativo termine.

 

Nel caso in esame, entrambe le comunicazioni, sia la diffida a esibire la documentazione già richiesta in occasione dell’accesso nella sede operativa, sia il verbale di prescrizioni, erano state notificate a mezzo posta, senza che peraltro il destinatario abbia mai provveduto al ritiro del plico. In entrambi i casi, peraltro, la notifica risulta effettuata presso un luogo nel quale l’interessato aveva la possibilità di pacifico accesso agli atti a lui destinati: nel primo caso la sede operativa della ditta, ove l’imputato si trovava il giorno dell’accesso da parte dell’Ispettorato e , nell’altro caso, addirittura presso l’abitazione privata, rispetto alla quale l’imputato non ha dedotto alcun concreto elemento idoneo a comprovare l’esistenza di specifici ostacoli al ricevimento della missiva.

 

La Corte di Cassazione ha ritenuta corretta, in conclusione, la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha rilevato la correttezza della notifica esperita, nelle forme della “compiuta giacenza”, dovendo il mancato ritiro delle missive imputarsi alla esclusiva decisione dell’imputato e per tutti i motivi sopraindicati la stessa ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali