L’articolo 42 comma 2 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (“Decreto Cura Italia”) ha previsto la copertura Inail per gli assicurati che contraggono un’infezione da coronavirus “in occasione di lavoro”. Un’espressione, quest’ultima, che lascia intendere un’applicabilità della tutela assicurativa anche ai contagi “in itinere” e finanche ai casi di lavoro a distanza.
L’Inail, dal canto suo, ha precisato nella circolare n. 13 del 3 aprile 2020 che le malattie infettive e parassitarie sono pacificamente inquadrate nella categoria degli infortuni sul lavoro, a cui si debbono pertanto ricondurre anche i casi di infezione da coronavirus.
Il contagio da Covid-19 si qualifica così come un infortunio che, come tale, schiude un potenziale profilo di responsabilità penale per il datore di lavoro che non abbia adottato le misure necessarie a prevenirne il rischio.
Laddove si possa accertare che l’inosservanza delle misure antinfortunistiche sia stata causa di infezione-malattia del lavoratore, il datore di lavoro risponderà dei reati di lesioni personali gravi o gravissime ai sensi dell’art. 590 c.p. (salvo ipotesi di malattia lieve, guaribile in meno di 40 giorni, nel qual caso scatterebbe anche la procedibilità a querela), oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte.
Il atore di lavoro, infatti, è titolare di una posizione di garanzia che discende in primo luogo dall’art. 2087 c.c. e gli impone di tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro.
A questa norma generale si affiancano poi le disposizioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro) e, in particolare, dall’art. 18, che pone a carico del datore di lavoro alcuni obblighi specifici tra cui ad esempio:
– fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale;
– informare il più presto i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
– astenersi dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato.
C’è poi l’articolo 271 del medesimo Testo Unico, che impone l’obbligo al datore di lavoro di valutare anche il rischio biologico.
È bene ricordare inoltre che trascurare gli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 sarebbe già di per sé motivo di sanzione penale, in forma di arresto o ammenda, a prescindere dal fatto che si siano verificati o meno degli infortuni.
Da non ultimo rileva poi l’ancor più esplicito contenuto della recente normativa emergenziale, di cui è esempio l’articolo 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, che impone alle imprese le cui attività non sono sospese di rispettare “i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali”. Vale a dire rispettare, tra le altre, le regole sulle informazioni da fornire ai dipendenti, sulle modalità e gestione degli ingressi e uscite dall’azienda, sull’accesso dei fornitori esterni, pulizia e sanificazione, sulle precauzioni igieniche personali e dispositivi di protezione individuale, sulla gestione degli spazi comuni e organizzazione aziendale, nonché sulla gestione di una persona sintomatica e sulla sorveglianza sanitaria.
Dimostrare che l’infezione sia avvenuta “in occasione di lavoro” è però tutt’altro che semplice.
Si direbbe piuttosto una probatio diabolica, tanto che anche la comunità scientifica non sembra aver ancora sciolto ogni dubbio sulle modalità di contagio ed anche i sistemi di contact tracing, allo studio in questi giorni, non paiono essere in grado di ricostruire con sufficiente certezza le linee di diffusione del virus.
Sul punto anche l’Inail ha fatto sapere nella propria circolare n. 13/2020 che la copertura assicurativa è riconosciuta al lavoratore a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa e che l’onere della prova è a carico dell’assicurato. Fanno eccezione alcune categorie professionali ad elevato rischio, come ad esempio gli operatori sanitari, gli operatori dei front-office, i cassieri e gli addetti alle vendite/banconisti per i quali Inail ha introdotto una presunzione semplice di contagio d’origine professionale, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico dei datori di lavoro.
Presunzioni che – almeno in teoria – non potrebbero comunque reggere da sole l’accusa in sede penale, dove vige il principio di presunzione d’innocenza e l’onere della prova è a carico del Pubblico Ministero (art. 27, comma 2, Cost.).
Tuttavia, merita ricordare che la Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza 7 ottobre 1988 Salabiaku vs. Francia) ha ritenuto che le presunzioni legali possano essere compatibili con la presunzione d’innocenza di cui all’art. 6 CEDU, purché vengano confinate entro limiti ragionevoli ed ammettano la prova contraria, ovvero siano presunzioni semplici. Nello stesso senso si esprime anche il considerando n. 22 della Direttiva UE n. 343 del 9 marzo 2016.
Le presunzioni, semmai, potranno assumere rilievo come indizi e potranno essere adoperate ai fini di prova del nesso di causalità solo se gravi, precise e concordanti, secondo una logica di giudizio controfattuale che consenta di escludere con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio, in ossequio alla necessità di dimostrare la colpevolezza dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.).
Ai fini della valutazione del nesso causale sul contagio da Covid-19 occorre inoltre considerare che il sito del Ministero della Salute riporta che “il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici varia fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni”, senza contare che in alcuni soggetti i sintomi potrebbero addirittura non presentarsi del tutto (www.salute.gov.it – FAQ Covid-19).
In un arco di tempo così variabile è probabile che possano interferire anche fattori estranei alla dimensione del lavoro, come ad esempio le fonti di contagio presenti negli ambienti domestici o in altri luoghi, quali i supermercati e le farmacie frequentate dal lavoratore, o ancora il comportamento abnorme ed esorbitante dell’interessato che non osserva con diligenza i protocolli di prevenzione.
Queste considerazioni non devono tuttavia lasciar spazio a comportamenti spregiudicati dei datori lavoro ed anzi quanto più essi trascureranno gli obblighi e le regole precauzionali, tanto più aumenterà la probabilità di ravvisare un nesso causale tra il loro comportamento negligente e il contagio del lavoratore.
Volendo estremizzare questo concetto, nei casi di gravi violazioni delle regole cautelari, si potrebbe addirittura trascendere da una responsabilità omissiva colposa ad un’ipotesi dolosa, quantomeno nella forma del dolo eventuale. Si pensi ad esempio all’imprenditore che non sia ancora adeguatamente attrezzato per riaprire in sicurezza la propria azienda ma che, ciò nonostante, decida di richiamare al lavoro i propri dipendenti per riavviare la produzione confidando che nessuno si contagerà (colpa cosciente) oppure accettando il rischio che tra loro possa diffondersi un contagio (dolo eventuale). Sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente si veda per tutte Cass. Sez. Unite, 24/04/14, n. 38343 caso Thyssenkrupp.
Vale infine una considerazione di buonsenso. Nell’emergenza sanitaria che sta vivendo il nostro Paese, i datori di lavoro sono toccati da una responsabilità morale, prima ancora che giuridica. Consapevoli che solo tutelando gli altri sapranno proteggere anche se stessi.